Pubblichiamo un'intervista del Corriere dello Sport a Zeman
Come s’usava a volte a scuola, Zeman: il primo argomento è a piacere... «Sono pronto a rispondere a qualsiasi domanda...».
Ha metabolizzato il dolore per l’esonero della Roma?
«Andiamo avanti, se può...».
Prendiamola alla larga, allora: che campionato ha visto?
«Direi mediocre».
L’ha vinto ormai la Juventus...
«La più forte. Quella che ha dimostrato di crederci più di ogni altra. La società che ha messo chiunque nelle migliori condizioni per lavorare».
Le squadre che le piacciono di più...
«In questo momento, per vari motivi, il Bayern Monaco e il Barcellona. Forse i tedeschi li preferisco perché esprimono un calcio più vivace. Ma entrambe racchiudono l’essenza d’una filosofia fondata sulla programmazione».
Scelga i migliori allenatori.
«Da quando ho perso di vista il mio preferito, Hiddink, direi Heynckes e Conte»
Ma il calcio italiano a che punto è?
«In piena crisi di valori etici, dominato dagli interessi degli sponsor e del merchandising, alla ricerca di danaro per rimediare agli investimenti sbagliati. Il Barcellona vince perché ha calciatori che ha formato nella propria cantera: è chiaro che poi deve intervenire anche attraverso il mercato, ma dietro di sé ha un alto profilo programmatico».
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Ha trovato pure i colpevoli?
«Non spetta a me, io posso provare - attraverso le mie opinioni - a individuare la cause. Forse è la società moderna che va così; o più semplicemente manca in alcuni la cultura sportiva. Vent’anni fa era diverso, esistevano uomini-simbolo: adesso comandano le tv, che distribuiscono ricchezza e opinioni attraverso le quali si tenta di influenzare il pensiero altrui. E’ una forma di potere, questo, che a me non piace. Si ha l’impressione di essere ostaggi della televisione».
Impossibile svicolare: dove vuole arrivare?
«Non lancio messaggi, esprimo i concetti. Che sono i miei. Poi possono piacere o no. Ma mi sembra che per una parte della classe dirigente sia più importante ciò che succede fuori che dentro campo».
Torniamo al 2 febbraio scorso: l’esonero era nell’aria...
«Io so che il 22 dicembre, dopo aver battuto il Milan, eravamo, quasi unanimemente, la squadra che con la Fiorentina esprimeva il più bel calcio in Italia. E la Roma con la Fiorentina ne ha vinte anche due su due....».
Però qualcosa era cambiato...
«Non dentro di me: quando sono tornato a Roma, l’ho fatto innanzitutto per affetto, perché sono legato al club, perché volevo ripartire - tredici anni dopo - e provare a regalare ai tifosi le stesse soddisfazioni di Pescara. Oggi, a posteriori, non saprei dirle perché sono stato chiamato, né perché mi sia stato proposto un biennale».
Sospetta (forse) d’esser stato scelto come personaggio-immagine?
«Posso soltanto dire che soltanto dopo essere arrivato qua, e non poteva accadere diversamente, ho scoperto che tra me e chi mi aveva voluto c’erano due visioni diverse del calcio».
Tra lei e la società qual era la differenza?
«Ci è mancata l’unità di intenti. Si dice così, no?».
Si dice così però spieghiamola...
«La Roma ha cambiato 14 calciatori, nove dei quali titolari. Eravamo la formazione più giovane. Ma anche i ragazzi di talento, per esplodere definitivamente, hanno bisogno di lavorare: l’unica condizione per migliorare e sviluppare le proprie qualità è quella. E poi esiste il rispetto delle regole. Chi arriva in un club così prestigioso, non deve pensare di aver raggiunto l’obiettivo. Deve poi confermarsi».
Resta vago e allora andiamo al cuore del problema: le responsabilità non saranno sempre degli altri, lei pensa d’aver commesso errori?
«Forse ho sbagliato nel pensare e nel credere, venendo alla Roma, che tutti avessero il mio stesso entusiasmo e la mia stessa concezione del calcio, il desiderio di vincere».
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