Il rapporto tra Gianluca Vialli e l’Inghilterra si apre con un calcio di rigore mai tirato.
Stadio “Olimpico” di Roma, 22 maggio 1996: si gioca la finale di Champions League. Sul prato dell’impianto capitolino si affrontano Ajax e Juventus. Il match è equilibrato, tirato, tesissimo. Dopo il botta e risposta del primo tempo, firmato Litmanen-Ravanelli, non succede più niente. Altri 120 minuti di sofferenza e si va ai rigori.
I tifosi juventini si aspettano che il loro idolo Gianluca Vialli, bianconero da quattro stagioni, coraggioso capitano di mille battaglie, si faccia avanti.
Marcello Lippi, gelido come sempre, gli chiede: “Luca, vuoi tirarlo?” La risposta del numero 9: “Marcello, se trovi cinque pazzi che vogliono andare sul dischetto, li guardo volentieri da fuori. Altrimenti, sono a disposizione“.
Si tira indietro, Gianluca Vialli. Sulla sua testa pesa ancora come un macigno la sassata di Koeman che condannò alla sconfitta la sua Sampdoria contro il Barcellona, quattro anni prima. Non se la sente: è troppo agitato per andare sul dischetto.
Questa infatti è la sua ultima chance. Abbracciato ai suoi compagni durante l’esecuzione della macabra lotteria dei rigori, sa già che a fine stagione lascerà per sempre Torino.
E lo farà, mettendo in valigia anche la Coppa dalle grandi orecchie, l’unico trofeo che mancava al suo palmarés da giocatore, dopo la Coppa delle Coppe 1990 e la Uefa conquistata a 29 anni.
Un “triplete” ante litteram che lo ha reso il primo – e finora unico italiano – a mettere nella propria bacheca personale i tre principali allori continentali.
La vittoria della Champions è la tappa decisiva della carriera sportiva di Gianluca Vialli. Il calcio italiano lo ha segnato nell’animo e nel fisico. Il ragazzo riccioluto di Cremona non esiste più, al suo posto c’è un uomo con accenni di calvizie che ha bisogno di nuovi stimoli: magari all’estero, perché no.
L’offerta che non si può rifiutare viene da Londra, tanto capitale della politica inglese, quanto succursale del calcio che conta. Manchester le ha sottratto lo scettro, i ragazzini terribili del Manchester United hanno messo i piedi in testa ai giocatori di Arsenal e Liverpool e lo faranno negli anni a venire.
Vent’anni fa il calcio, d’un tratto, non fu più lo stesso. Il calciomercato soprattutto. La sentenza Bosman liberò i giocatori dalle società: scaduto il contratto, ogni professionista poteva andare dove voleva senza che si dovesse pagare alcun indennizzo. Uno choc, un ciclone. Fino ad allora, esisteva il ‘parametro’: il prezzo di un calciatore svincolato era dato dall’età, dall’ingaggio precedente, dal rendimento. Per esempio: Roberto Baggio, al quale la Juve nel ’95 non rinnovò il contratto, passò al Milan per una cifra attorno ai 18 miliardi di lire. Non era poco, anzi. Dodici mesi più tardi se ne sarebbe andato gratis, ottenendo un notevole beneficio al momento della firma del nuovo accordo.
Il primo grande campione a sfruttare la sentenza Bosman fu Gianluca Vialli. Era, all’epoca, uno dei più forti attaccanti del mondo, benché avesse già 31 anni. Il 22 maggio 1996 alzò al cielo di Roma la Champions League da capitano della Juve, il giorno successivo firmò per il Chelsea. Era davvero un altro calcio. Pensate che Vialli era arrivato oltre i trent’anni senza mai avere un procuratore. Okay, era colto e intelligente, ma oggi una situazione del genere sarebbe inimmaginabile. Lui ne ingaggiò due, Pasqualin e D’Amico, proprio per chiudere quella trattativa.
Gianluca Vialli, come venne vissuta la sentenza Bosman dai calciatori?
“Con grande curiosità, inizialmente, ma anche con un po’ di preoccupazione. Ne parlavamo molto tra di noi, all’interno dello spogliatoio della Juve, e tentavamo di capire quali effetti avrebbe avuto sulle squadre e anche sui singoli. Non c’era grande chiarezza, ogni ipotesi veniva discussa e vagliata. Poi tutto si chiarì”.
Possiamo sostenere che per lei, in scadenza di contratto, la rivoluzione arrivò al momento giusto?
“Direi proprio di sì: la sentenza Bosman mi dava la possibilità di andare a giocare ovunque senza che la società acquirente dovesse pagare alcunché: egoisticamente mi metteva nelle condizioni di scegliere il mio futuro in totale libertà e in base alla mia convenienza”.
Quando prese la decisione di lasciare l’Italia?
“Per la verità l’avevo già presa e l’avrei fatto comunque, anche senza la sentenza Bosman. Arrivò la chiamata del Chelsea, una società che aveva programmi e progetti affascinanti anche se - è bene ricordarlo - non era ancora l’epoca d’oro di Abramovich. Già allora però c’era all’interno della società l’idea che un giorno si potesse riuscire a vincere la Premier. Poi c’era Gullit come allenatore, e mi conosceva, e anche la possibilità di vivere a Londra… Messo tutto assieme, non potevo dire di no”.
Quando comunicò alla Juve questa sua decisione?
“Fu la Juve a farmi capire che non aveva intenzione di rinnovarmi il contratto. Accadde prima che giocassimo i quarti di finale della Champions contro il Real Madrid. A essere sincero, all’inizio non ci rimasi benissimo. Tutt’altro. Pian piano però mi resi conto che lasciare Torino sarebbe stata la soluzione migliore anche per me e arrivai a quella scelta”.
Firmò prima della finale di Roma contro l’Ajax?
“Prima trovammo un accordo verbale, ma non scrivemmo niente. Avevo altro a cui pensare, in quei giorni. Una volta giocata la partita, con la Coppa in mano, firmai”.
Com’è possibile che lei sia arrivato a trentuno anni senza avere un procuratore? Oggi è impossibile immaginare un calciatore così importante senza un professionista che lo assiste.
“Quando ero alla Samp, facevo tutto con Mantovani e non c’erano mai problemi. Ci sedevamo assieme attorno a un tavolo, ci alzavamo e il contratto era a posto. E lo stesso capitò quando mi cedette alla Juve. Erano altri tempi, sì. In quella circostanza, invece, ritenni necessario affidarmi a un procuratore perché valutai quali fossero le mie esigenze e quali fossero quelle del Chelsea: io non volevo distrazioni, ero tutto concentrato sulla Champions, e loro avevano necessità di confrontarsi, si parlare. Perciò presi quella decisione”.
Che mondo trovò al Chelsea?
“Eh, rimasi scioccato. Fin dall’inizio, dalle visite mediche quando arrivai: nemmeno paragonabili alle nostre. Ma era tutto differente: meno professionalità, strutture peggiori, mai il doppio allenamento, due giorni liberi alla settimana… Non c’era proprio paragone, in Italia eravamo su un altro pianeta. Mi adattai, com’era giusto che fosse, però…”.
Nel febbraio del 1998 diventò calciatore-allenatore: cambiò qualcosa?
“Da player-manager ho cercato di far salire di livello tutto l’ambiente, ho provato a trasmettere un’organizzazione più continentale, europea. Era cominciato il salto in avanti dell’Inghilterra, la Premier iniziò a cambiare grazie all’esperienza di calciatori e tecnici stranieri”.
E oggi la Premier è il campionato migliore del mondo…
“Non so se sia giusto definirlo il migliore, ma è indiscutibilmente il più divertente, spettacolare, imprevedibile, credibile. Merito dell’atmosfera che è stata creata attorno al prodotto calcio, che deve essere venduto e perciò è meno tattico e più veloce, e senza atteggiamenti sbagliati in campo. Magari si difende male, perciò ci sono tanti gol, però al pubblico piace perché tutto questo fa spettacolo”.
E anche la professionalità, che vent’anni fa non c’era, oggi c’è.
“Adesso dal punto di vista organizzativo i club di Premier League sono al livello delle altre grandi società europee, non ci sono dubbi”.
Vialli, in due anni e mezzo da allenatore del Chelsea lei ha vinto cinque trofei: Coppa delle Coppe, Coppa di Lega, Supercoppa europea, Fa Cup, Charity Shield. Perché ha abbandonato la panchina?
“Ho avuto un’esperienza non felice al Watford, poi ho capito che ci sono anche cose più divertenti e meno stressanti che fare l’allenatore. Diciamo che ho smesso per una serie di situazioni. C’è ad esempio questa straordinaria avventura assieme a Sky Italia, una famiglia di cui sono orgoglioso di far parte. E c’è anche il fatto che mi sono sposato: prima ero sposato con il calcio. Sono felice, insomma, di quello che faccio”.
Vent’anni dopo, cosa le lascia la sentenza Bosman?
“Un calcio differente. Chi ha la capacità di improvvisare si è abituato più facilmente, gli altri hanno sofferto. Di sicuro ci hanno guadagnato i calciatori, almeno sul piano economico. Le società hanno solo potuto adattarsi”.